Giovanni Brusca e il Paradosso della Legge: Non È quella di Falcone
L’amara ironia della giustizia italiana
Giovanni Brusca, il “macellaio di Cosa Nostra”, è ufficialmente un uomo libero. Colui che il 23 maggio 1992 premette il telecomando della strage di Capaci, causando la morte di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e della loro scorta, ha visto concludersi il periodo di libertà vigilata cominciato nel 2021. Non più controlli, non più obblighi: Brusca è ora libero, senza alcun vincolo legale che lo sottoponga alla sorveglianza dello Stato. Questa notizia, che ha fatto rabbrividire l’opinione pubblica, riecheggia come un doloroso paradosso, in cui il sistema giudiziario italiano si ritrova ad applicare norme ispirate a principi giusti – come il reintegro sociale – a un caso che molti cittadini, comprensibilmente, trovano inaccettabile.
Ma come siamo arrivati a questo punto?
Una libertà discutibile e il problema dell’interpretazione giuridica sulla pericolosità sociale
La revoca della libertà vigilata, una misura di sicurezza prevista dal Codice Penale, non avviene automaticamente: richiede un provvedimento del giudice, che deve stabilire se la pericolosità sociale della persona sottoposta alla misura possa ritenersi cessata. Ed è proprio questo il punto su cui si solleva una questione cruciale. Non conosciamo i dettagli del provvedimento con cui il giudice ha disposto la cessazione della libertà vigilata di Brusca. Tuttavia, ci permettiamo di non condividerne gli effetti per due ragioni fondamentali: il concetto di **difesa sociale** e il **rispetto per il dolore dei parenti delle vittime**.
Il concetto di difesa sociale – un caposaldo della moderna criminologia e della giustizia penale – si basa sulla necessità di garantire che un soggetto non rappresenti più un pericolo per la collettività prima di essere reintegrato pienamente nella società. Come scriveva Cesare Beccaria nel *Dei delitti e delle pene*, “la certezza della pena, anche più che la sua severità, è indispensabile per trattenere gli uomini”. La certezza, in questo caso, non è solo l’esecuzione della pena in senso tecnico, ma anche l’applicazione di criteri rigorosi a tutela della collettività, in modo che non vi sia il dubbio che il colpevole continui a rappresentare un pericolo.
E qui la domanda è inevitabile: **possiamo realmente considerare Giovanni Brusca – un pluriomicida, mandante di centinaia di crimini e responsabile, tra gli altri, del rapimento e dell’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo – come un individuo non pericoloso dopo il suo percorso di collaborazione giudiziaria?**
Per rispondere a questa domanda, bastano le sentenze definitive emesse dalla magistratura. Sia nel procedimento *Capaci bis* che in quello sull’omicidio Di Matteo, Brusca è stato giudicato **contraddittorio, calunnioso e spesso manipolatorio**. Tuttavia, non sono solo queste due sentenze a sollevare dubbi. Anche altri procedimenti giunti a sentenza definitiva certificano, almeno sotto determinati aspetti, **l’inattendibilità di Brusca come collaboratore di giustizia**: a volte ha taciuto informazioni che erano certamente nella sua conoscenza; altre volte ha fornito versioni dei fatti che si sono rivelate incomplete o non completamente veritiere. Insomma, il suo contributo al sistema giustizia non può essere liquidato come inutile, ma neppure può essere considerato lineare o meritevole di piena fiducia.
Garantire alti principi di giustizia è fondamentale in uno Stato di diritto, ma premi e benefici vanno concessi solo dove ci siano solide basi di merito e piena sicurezza. Come sottolineava Norberto Bobbio, “lo Stato di diritto si fonda sull’equilibrio tra libertà e sicurezza”. La libertà individuale non è assoluta: si ferma laddove inizia il diritto alla sicurezza della collettività intera.
Nel caso di Giovanni Brusca, quella sicurezza collettiva sembra essere stata sacrificata, forse a causa di una **interpretazione della legge che rischia di essere letta come eccessivamente burocratica e automatizzata**, senza la necessaria attenzione al caso concreto e al passato del soggetto in questione.
Infine, non si può ignorare il dolore incancellabile dei parenti delle vittime. Ogni decisione giudiziaria, anche la più giusta sul piano strettamente tecnico, deve tenere conto delle sue inevitabili ricadute emotive e morali sulle persone che hanno perso i loro cari in un modo tanto barbaro. Concedere la revoca della libertà vigilata a chi ha spezzato quelle vite non solo rappresenta un ulteriore schiaffo alla memoria delle vittime, ma rischia di minare la fiducia della società intera nella giustizia come garanzia di equilibrio e rispetto.
La difficile gestione della verità: errori giuridici e di comunicazione
Prima di affrontare il tema della memoria e delle sue fragilità, occorre evidenziare una sequenza di errori che coinvolge direttamente la gestione dell’eredità falconiana. Gli errori tecnico-giuridici contenuti nelle dichiarazioni di Maria Falcone sulla liberazione di Brusca si inseriscono infatti in un quadro più ampio di difficoltà comunicative che ha già mostrato le sue criticità durante le commemorazioni del 23 maggio 2025, quando la Fondazione Falcone da lei diretta commise l’errore di anticipare il minuto di silenzio, suscitando polemiche per le quali non è mai stata formulata una scusa formale.
Il primo errore riguarda l’attribuzione normativa della liberazione di Brusca. Maria Falcone ha dichiarato che si tratta della “legge sui collaboratori di giustizia, voluta da Giovanni”, presentando la questione come se la revoca della libertà vigilata fosse una diretta conseguenza della normativa sui pentiti. In realtà, la cessazione della libertà vigilata è disciplinata dagli articoli 207 e 228 del Codice Penale del 1930 — ben sessantadue anni prima della legge sui collaboratori — che prevedono la revoca delle misure di sicurezza quando il giudice accerti la cessazione della pericolosità sociale. Come stabilito dall’articolo 207, “il giudice ne dispone la revoca qualora tale presupposto [la pericolosità sociale] venga meno”, indipendentemente dal fatto che il soggetto sia o meno un collaboratore di giustizia.
La legge sui collaboratori di giustizia ha certamente consentito a Brusca di ottenere benefici durante l’esecuzione della pena, ma la revoca della libertà vigilata segue regole autonome e preesistenti, fondate esclusivamente sulla valutazione giudiziale dell’attuale pericolosità sociale. È un errore concettuale non da poco, che rivela una scarsa dimestichezza con quella legislazione penale di cui pure si dovrebbe avere piena padronanza. Questa imprecisione, per quanto comprensibile sul piano umano, rischia di alimentare nell’opinione pubblica una percezione distorta della normativa sui collaboratori di giustizia, facendo apparire come automatico ciò che invece è frutto di una valutazione giudiziale autonoma e distinta. Il pericolo è che tali inesattezze possano fornire argomenti a chi vorrebbe mettere in discussione uno strumento che, pur perfettibile, rimane fondamentale per il contrasto alla criminalità organizzata.
Il secondo errore è ancora più significativo dal punto di vista sostanziale. Maria Falcone ha sostenuto che Brusca “ha avuto un percorso di collaborazione con la giustizia che ha avuto un impatto significativo sulla lotta contro Cosa Nostra”, aggiungendo che “le confessioni di Brusca hanno contribuito all’arresto di numerosi mafiosi e alla confisca di beni illeciti”. Tuttavia, nella stessa dichiarazione, ha dovuto ammettere che “la sua collaborazione non è stata, su ogni fronte, pienamente esaustiva”.
Quest’ultima affermazione è un eufemismo che mal cela la realtà processuale. Come documentato dalle sentenze definitive, Brusca è stato più volte definito contraddittorio, inattendibile e manipolatorio. Non si tratta di lacune marginali, ma di valutazioni giudiziali che hanno messo in discussione la genuinità del suo contributo collaborativo. Come osservato dalla Gip Marina Petruzzella, le interpretazioni di Brusca erano state “suggerite dalle molteplici sollecitazioni ricevute nel corso di interrogatori”, mentre altri magistrati hanno evidenziato “una possibile sopravvenuta esigenza di assecondare alcune ipotesi accusatorie, determinata dalla volontà di acquisire qualche benemerenza”.
Definire “significativo” il contributo di un collaboratore giudicato inattendibile da più tribunali equivale a un’imprecisione che distorce la realtà giudiziaria. È comprensibile che il dolore personale possa offuscare il rigore tecnico, ma quando si riveste un ruolo pubblico nella custodia della memoria antimafia, la precisione nelle affermazioni diventa un dovere morale verso l’opinione pubblica e verso la stessa verità che si pretende di difendere. Dichiarazioni inesatte su un tema così delicato rischiano infatti di fornire munizioni a chi critica tout court l’istituto della collaborazione di giustizia, compromettendo la credibilità di uno strumento che, nonostante i suoi limiti, resta indispensabile nella lotta contro le organizzazioni criminali.
Questi errori, insieme all’episodio del 23 maggio, dimostrano come anche le voci più autorevoli dell’antimafia possano involontariamente contribuire a quella confusione che indebolisce la credibilità delle istituzioni e alimenta il cinismo dei cittadini. In simili circostanze, quando la competenza tecnica vacilla sotto il peso dell’emozione, forse il silenzio sarebbe stata la scelta più saggia e rispettosa verso quella stessa causa che si intende servire.
Memoria tradita: l’episodio del 23 maggio 2025
Il valore dell’aletheia per le nuove generazioni
Il caso di Giovanni Brusca libero e le imprecisioni comunicative che hanno accompagnato questo evento ci portano alla stessa, amara conclusione: la verità autentica, quella che i Greci chiamavano *aletheia* – il disvelamento, il togliere il velo che nasconde la realtà – sta diventando sempre più fragile nella nostra società.
Per i giovani che quegli anni tragici non hanno vissuto direttamente, questa è una lezione fondamentale che dobbiamo trasmettere con onestà intellettuale. Come scriveva Hannah Arendt: “Il potere corrisponde all’abilità umana non solo di agire, ma di agire in concerto”. La memoria collettiva richiede proprio questo: agire insieme, con la stessa dedizione alla verità e lo stesso rispetto per chi ha sacrificato la propria vita.
Non possiamo permettere che la giustizia diventi mera applicazione burocratica di norme, né che la memoria si trasformi in una rappresentazione svuotata del suo significato più profondo. Ai giovani dobbiamo lasciare in eredità la consapevolezza che la verità non è negoziabile, che la giustizia autentica non può prescindere dalla sicurezza collettiva e che la memoria delle vittime merita rispetto assoluto, non compromessi organizzativi.
Conclusione
Giovanni Brusca è libero. **Forse era evitabile, forse no.** Ma senza memoria autentica, senza onestà intellettuale e senza il giusto rispetto per la complessità della giustizia, quante altre volte continueremo a tradire il senso profondo di ciò che chiamiamo verità?
È questo il nostro dovere morale verso chi non c’è più e verso chi verrà dopo di noi: custodire l’*aletheia*, la verità disvelata, come l’unico antidoto possibile all’oblio e all’indifferenza.
Stefano Giordano