Il Tramonto di una Carriera: Alfredo Montalto e l’Illusione della Trattativa
-L’ultimo articolo su L’Unità dell’Avv. Stefano Giordano. Il pensionamento di Montalto è tutto quello che dovete sapere sul processo della trattativa
Quando la Storia Giudiziaria Ridimensiona le Certezze di un Magistrato
Il pensionamento di Alfredo Montalto dal suo ruolo di presidente della sezione Gip-Gup del Tribunale di Palermo segna la fine di una carriera magistratuale che sarà inevitabilmente ricordata per una delle più significative smentite giudiziarie degli ultimi decenni. Il magistrato che si congedò dalla giustizia attiva con la convinzione di aver scritto una pagina di storia con la sentenza sulla cosiddetta “trattativa Stato-mafia”, si ritrova oggi a confrontarsi con il verdetto della Cassazione che ha sostanzialmente ridimensionato quel castello accusatorio.
Il Processo che non Doveva Esistere
Il 20 aprile 2018, in un’aula bunker stracolma, Montalto lesse una sentenza di condanna che scuoteva i palazzi del potere: 28 anni a Leoluca Bagarella, 12 anni ciascuno ai generali del ROS Mario Mori e Antonio Subranni, stessa pena per Marcello Dell’Utri e Antonino Cinà, 8 anni per Giuseppe De Donno. Fu lui a scrivere le 5.252 pagine di motivazione nel processo sulla Trattativa Stato-mafia.
Una sentenza che sembrava chiudere uno dei capitoli più oscuri della storia italiana. Montalto si poneva così come interprete di una verità giudiziaria che riteneva di aver dimostrato attraverso l’esistenza di una trattativa segreta che aveva condizionato lo Stato alla volontà criminale di Cosa Nostra.
Le Voci Critiche che Montalto Sottovalutò: La Demolizione Preventiva di Fiandaca
Prima ancora che i gradi superiori ridimensionassero la costruzione accusatoria di Montalto, Giovanni Fiandaca, professore emerito di Diritto penale all’Università di Palermo e padre del diritto penale antimafia, aveva espresso sin dal 2012 forti perplessità sull’intera inchiesta, definendola “una boiata pazzesca”. Nel libro “La mafia non ha vinto”, scritto insieme allo storico Salvatore Lupo, Fiandaca aveva analizzato criticamente l’impianto accusatorio, evidenziando come “ci fosse una sproporzione tra l’accertamento di un reato e la volontà di ricostruzione storica”.
Le obiezioni di Fiandaca si concentravano su aspetti tecnico-giuridici fondamentali: “La ‘trattativa’ di per sé non è un reato e l’ipotesi della minaccia si basava su interpretazioni discutibili di fatti che hanno tante interpretazioni alternative”. Il giurista aveva individuato la sostanziale problematicità dell’articolo 338 del codice penale (violenza o minaccia a corpo politico dello Stato) per descrivere i fatti contestati, sostenendo che “mancavano i presupposti giuridici per ipotizzare un concorso nel reato”.
Inoltre, Fiandaca aveva sollevato obiezioni di carattere storico-politico: “Quali sono i vantaggi conseguiti da Cosa nostra? L’azione repressiva non è venuta meno, il 416bis e il 41bis sono lì, tutti i capimafia sono in galera”. E ancora: “davvero crediamo che i vertici dello stato collusi siano Amato, Scalfaro, Ciampi e Conso?”.
Il dissenso non si limitava a Fiandaca. Altri autorevoli magistrati, tra cui Carlo Nordio (ex procuratore di Venezia e attuale ministro della Giustizia), avevano espresso perplessità sui fondamenti giuridici dell’inchiesta.
La Parola Definitiva della Cassazione: La Conferma delle Tesi di Fiandaca
Nel settembre 2021, la Corte d’Assise d’Appello di Palermo ribaltò significativamente le statuizioni di primo grado, assolvendo tutti gli imputati istituzionali. Dell’Utri fu assolto “per non aver commesso il fatto”, mentre Mori, Subranni e De Donno “perché il fatto non costituisce reato”.
L’epilogo definitivo arrivò il 27 aprile 2023, quando la Suprema Corte mise la parola fine sulla costruzione accusatoria. I supremi giudici ridimensionarono quel verdetto in quanto “l’esclusione di possibili ipotesi alternative non può supplire alla carenza di certezza dell’indizio”.
Il ridimensionamento del “teorema trattativa” era già stato anticipato dall’assoluzione definitiva di Calogero Mannino, accusato di essere stato il “motore” della presunta trattativa. La Cassazione dichiarò “inammissibile il ricorso della Procura generale di Palermo”, confermando che l’ex ministro era “estraneo a tutte le contestazioni” e che “la tesi dell’accusa” era “illogica ed incongruente”.
Il giudizio della Cassazione ha confermato le previsioni di Fiandaca quando sosteneva che “i pm sono andati all’avventurosa ricerca di un ipotetico reato perché muovevano da un pregiudizio storico-morale”. Come aveva profeticamente osservato: “Un teorema giuridicamente fragile, senza riscontri probatori e che rasenta il ridicolo dal punto di vista storico”.
Le Questioni Metodologiche: Quando l’Antimafia Sembra Prevalere sul Rigore Giuridico
La sentenza di Montalto rappresenta un caso emblematico di quello che Fiandaca ha definito un processo trasformato in “storytelling multimediale”. Il professore emerito aveva individuato un vizio metodologico: “delle oltre 5200 pagine della motivazione della sentenza di condanna quelle dedicate a questioni di stretto diritto ammontano a poche decine”. Una sproporzione che tradiva un intento più narrativo che giuridico.
Fiandaca aveva osservato come “la magistratura in buona fede ricorre a interpretazioni estensive delle norme incriminatrici anche sorvolando su questioni di stretto diritto pur di arrivare ai risultati repressivi che ritiene necessari”, trasformando il processo in quella che lo stesso giurista definiva una “patologia del nostro sistema”.
I Precedenti Problematici: Lo Scontro con Sgarbi e la Sconfitta alla Consulta
Il processo sulla trattativa non fu il primo episodio in cui Montalto mostrò una gestione discutibile dell’autorità giudiziaria. Il caso più emblematico fu lo scontro con il deputato Vittorio Sgarbi che si concluse con una clamorosa sconfitta davanti alla Corte Costituzionale.
La vicenda risale al 1995, quando Montalto ordinò l’arresto dell’ex ministro democristiano Calogero Mannino “per il pericolo di depistaggi nelle indagini”. Un arresto che si rivelò completamente ingiustificato: Mannino, dopo tre anni di ingiusta carcerazione preventiva, fu definitivamente assolto nel 2008 dalla Corte d’appello di Palermo “dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa”.
Quando Sgarbi criticò duramente l’operato di Montalto, definendo l’arresto di Mannino un atto di giustizia sommaria, il magistrato non esitò a sollevare conflitto di attribuzione contro la Camera dei deputati, che aveva dichiarato insindacabili le dichiarazioni del parlamentare. Montalto pretendeva di sottoporre a giudizio penale il deputato.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 116 del 2003, diede completamente torto a Montalto, stabilendo che le dichiarazioni di Sgarbi erano coperte dall’insindacabilità parlamentare. Come scrisse lo stesso Sgarbi: “ebbe un contenzioso con la Camera dei deputati per una mia affermazione. E perse”. Una sconfitta istituzionale che evidenziava la tendenza di Montalto a eccedere nei suoi poteri.
Anche il senatore Filiberto Scalone ebbe modo di scontrarsi con l’autorità di Montalto, arrivando a chiedere la ricusazione del presidente. La richiesta venne respinta dalla Corte d’appello di Palermo, ma non senza che i giudici superiori esprimessero “parole di inopportunità verso il comportamento del magistrato, invitandolo di fatto all’astensione per difetto di imparzialità.
L’episodio rivela un tratto caratteriale che si sarebbe ripresentato nel processo sulla trattativa: la grossa difficoltà in capo a Montalto di accettare critiche al proprio operato e la tendenza a utilizzare gli strumenti processuali per tentare di silenziare le voci dissonanti.
La Continuità di un Metodo: Dalle Possibili Violazioni Processuali ai Pentiti Compiacenti
La gestione del processo sulla trattativa sembrò confermare un modus operandi che privilegiava la narrativa accusatoria rispetto alle garanzie processuali. Un caso emblematico riguarda il trattamento riservato al difensore di Claudio Martelli durante le fasi più delicate del dibattimento.
Al difensore di Martelli fu impedito di partecipare dal pretorio all’audizione del suo stesso assistito. Ma l’episodio più grave si verificò quando il legale fu letteralmente allontanato dall’aula, insieme ai suoi collaboratori, con l’ausilio della forza pubblica, per ordine del presidente Montalto. L’allontanamento impedì di fatto al difensore di assistere all’audizione dal pretorio, spesso popolato da giornalisti,di un pentito che sosteneva che Martelli “aveva fatto la trattativa” ed era il mandante delle stragi.
Durante il dibattimento, e in sentenza,Montalto diede ampio credito alle dichiarazioni di collaboratori di giustizia come Carmelo D’Amico, che aveva “cambiato improvvisamente versione” durante il controesame, passando dall’indicare in “Andreotti, negli uomini dei servizi segreti e in Provenzano e Riina, i mandanti delle stragi” a individuare “i responsabili degli attentati in coloro che all’epoca rivestivano le cariche di ministri dell’Interno e di Grazia e Giustizia”.
Le accuse contro Martelli si rivelarono talmente infondate che l’ex ministro presentò querela per calunnia contro D’Amico, sottolineando come il pentito avesse “creato una falsa rappresentazione della realtà storica al fine di usufruire delle agevolazioni previste per i collaboratori di giustizia”.
Le Ombre di una Carriera
È innegabile che il caso della trattativa rappresenti un elemento di criticità significativo nel curriculum professionale di Montalto. Un magistrato che per anni ha costruito la propria reputazione su processi di mafia si ritrova oggi a dover considerare che il suo lavoro più ambizioso è stato sostanzialmente ridimensionato dai gradi superiori di giudizio. Come ha amaramente commentato Fiandaca: “questa vicenda è una fotografia che ci aiuta a riflettere sulle storture della giustizia italiana”.
Le Conseguenze per i Servitori dello Stato
Tra gli aspetti più delicati della vicenda vi è il danno subito da uomini delle istituzioni che hanno dedicato la loro vita al servizio dello Stato. Figure come il generale Mario Mori e il colonnello Giuseppe De Donno, ufficiali dei Carabinieri di comprovata integrità, si sono trovati trascinati in un vortice giudiziario che ha inevitabilmente interessato la loro reputazione.
Come aveva amaramente osservato Giovanni Fiandaca: “come vuoi risarcirli? Hanno perso dignità, onore, speso oltre vent’anni a cercare di difendersi”. Parole che evidenziano l’ingiustizia subita da servitori dello Stato che, nella loro carriera, avevano sempre operato con dedizione e trasparenza.
Riflessioni sul Garantismo nell’Antimafia
Il pensionamento di Alfredo Montalto chiude simbolicamente un’epoca della magistratura italiana, quella dei processi mediatici costruiti più su suggestioni narrative che su solide basi giuridiche. La vicenda della trattativa Stato-mafia rappresenta un caso di scuola di come l’ansia di giustizia possa portare a forzare la mano delle prove, costruendo castelli accusatori destinati a crollare sotto il peso del diritto.
Leonardo Sciascia aveva ammonito che “una credibile lotta alla mafia va fatta attraverso un serio garantismo”. Parole profetiche che risuonano oggi come un monito contro le possibili derive che trasformano il processo in spettacolo e la ricerca della verità in caccia al capro espiatorio.
La lungimiranza di Giovanni Fiandaca nel denunciare sin dal 2012 le falle dell’impianto accusatorio dimostra l’importanza del dibattito critico anche nei confronti delle inchieste antimafia. Come aveva osservato il giurista: “evitare l’appoggio incondizionato alle indagini antimafia non significa indebolire la lotta alla mafia. Anzi”.
Il caso Montalto-trattativa evidenzia i rischi di quello che Fiandaca ha definito “il processo mediatico convergente”, dove narrativa giornalistica e impostazione accusatoria si rafforzano a vicenda, creando una verità parallela che prescinde dai fatti processuali.
Epilogo: Il Magistrato e le Sue Macerie
La carriera di Montalto si chiude così con un bilancio agrodolce: da un lato alcuni successi, dall’altro la pesante smentita di quello che doveva essere il suo capolavoro giudiziario. Una lezione per tutti: nella giustizia, come nella storia, la verità processuale non sempre coincide con le nostre convinzioni, per quanto ferme esse possano essere.
La sentenza sulla trattativa, con le sue oltre cinquemila pagine di motivazioni, rimarrà probabilmente più un monumento all’illusione che alla giustizia, e una conferma della necessità di mantenere sempre vivo il dibattito critico anche sui processi più simbolici dell’antimafia italiana.
Come recita un antico brocardo latino, “*Veritas filia temporis*” – la verità è figlia del tempo. Il tempo ha dato ragione ai critici del processo e ha smascherato l’inconsistenza di un teorema costruito più sui desideri che sui fatti. Alfredo Montalto va in pensione lasciando dietro di sé non la gloria di aver scoperto una verità nascosta, ma le macerie di un castello accusatorio che la Cassazione ha demolito pezzo per pezzo.
La giustizia italiana, dopo questa esperienza, dovrebbe interrogarsi profondamente sui rischi dell’emotività processuale e della spettacolarizzazione del diritto. Perché, come ammoniva ancora Sciascia, “la giustizia che si fa spettacolo smette di essere giustizia per diventare teatro”.
Forse è giunto il momento per il dottor Montalto di dedicarsi serenamente ai suoi hobby preferiti – come il tennis – sport che, a differenza dei processi fantasma, ha regole chiare, arbitri imparziali e dove il risultato dipende esclusivamente dal merito in campo. Un ambiente dove l’emozione del gioco non compromette mai l’equità del punteggio e dove, alla fine di ogni partita, si può serenamente stringere la mano all’avversario, consapevoli che le regole sono state rispettate da tutti.

